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Perseverare (virgola) diabolicum

Presentato il nuovo slogan per la campagna dell’Uaar sugli autobus genovesi. Sorvolerò sul triste fatto che la virgola tra soggetto e verbo sia rimasta dov’era.

Comunque, tirate le somme di tutta la faccenda, sappiate che alla fine ho rinnovato l’iscrizione all’Uaar anche per il 2009, e mi fa piacere sentire che in questi giorni stanno avendo un boom di nuovi soci. Condivido il novanta per cento di quel che fanno, pur continuando a nutrire riserve sulla vicenda degli autobus; e ovviamente, nonostante tutto, mi rammarico della censura in cui è incorsa la prima fase dell’iniziativa. Avrei preferito vedere sugli autobus lo slogan che pure non condividevo, piuttosto che assistere a questa desolante prova di italianità. Per fortuna si è giunti a un compromesso, anche se devo dire che il nuovo slogan non è particolarmente accattivante.

Spero soltanto che quest’anno gli sforzi dell’associazione, sostenuti anche dal mio piccolo contributo, vadano meno nella direzione di sterili diatribe teologiche,* e più nel merito della lotta all’ingerenza vaticana nella vita delle persone. Mi sembra importante ricordare che tra la nostra situazione e quella inglese o spagnola c’è una bella differenza; e se gli inglesi possono permettersi di scrivere frasi spiritose su un autobus, noi forse abbiamo questioni più pressanti di cui occuparci, anziché scimmiottare le iniziative altrui.

* (disse colei che aveva fatto la tesi di laurea sulla teologia morale e la spiritualità monastica del XII secolo.)

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Rete dei redattori precari

Ricevo e volentieri diffondo il link alla Rete dei redattori precari.

Chi mi segue su questo blog e offline sa che ho trascorso qualche tempo in casa editrice, e che la situazione di queste figure professionali mi preoccupa ancor più di quella dei traduttori. (Su quel che penso dei traduttori e dei loro compensi non mi dilungo, per evitare di scatenare altri flame, ché si è visto che il traduttore italico, mediamente, è suscettibile. Mi limito a ribadire che il traduttore non è la figura più debole, tra quelle che ruotano intorno a una casa editrice.) Scrivono i precari redattori:

In passato l’editoria è stata un precoce laboratorio di forme contrattuali atipiche, oggi è un settore che come pochi altri ha eretto la precarietà a sistema. I giovani lavoratori editoriali sono per la quasi totalità instabili, assunti con contratti capestro che li obbligano a lavorare indefessamente per pochi spiccioli (i tanto chiacchierati 1000 euro al mese per molti di noi sono un miraggio). Spesso, poi, si tratta di contratti atipici irregolari che nascondono una dipendenza di fatto, ma senza le tutele che la legge garantisce ai lavoratori subordinati. Frutto di questa condizione sono lo svilimento della nostra professionalità e lo scadimento formale, e non solo, di tanta parte della produzione editoriale italiana.

Tra gli obiettivi (riassumendo):

  • opporsi all’esternalizzazione selvaggia dei servizi editoriali;
  • possibilità di scelta da parte del lavoratore, e non solo dell’azienda, della modalità di collaborazione (occasionale, a progetto, ecc);
  • mettere a punto un “tariffario del redattore” che stabilisca quale sia una retribuzione adeguata per tipo e carico di lavoro svolto;

e soprattutto:

Oggi nelle case editrici e negli studi editoriali non si fanno quasi più nuove assunzioni a tempo indeterminato, e gli incarichi di routine sono sempre più spesso affidati a collaboratori costretti a recarsi in azienda rispettando gli orari di ufficio e soggiacendo al volere di dirigenti e capireparto. Tutto ciò, oltre che moralmente riprovevole, è illegale. Dunque pretendiamo che collaboratori a progetto, occasionali ecc. non vengano utilizzati per supplire alla carenza di personale interno e che, come stabilito dalla legge, operino in autonomia con il solo vincolo di coordinarsi con i propri referenti di produzione.

(Ah, e trovo molto autoironica la scelta di far comparire in cima a ogni pagina del sito una successione casuale di refusi scovati in libri già pubblicati. Ogni volta che ricarico la pagina, temo sempre che salti fuori un libro di cui ho fatto io l’ultimo giro di bozze.)

Aggiornamento dei feed per questo blog


Comunicazione di servizio: anche il feed di questo blog, come molti altri negli ultimi giorni, è passato da Feedburner a Google.

Il nuovo feed di questo blog è: http://feeds2.feedburner.com/quartabozza

Il feed dei commenti è: http://feeds2.feedburner.com/CommentiPerLaQuartaBozza

Il feed del sito (ilariakaterinov.com) è: http://feeds2.feedburner.com/ilariakaterinov

Prego tutti i miei lettori di aggiornare il feedreader.
Chi ne sa più di me afferma infatti che il vecchio feed potrebbe non funzionare più dopo il 28 febbraio; ci sono stati parecchi dibattiti in proposito, da cui evinco che la cosa più sicura sia chiedervi di aggiornare il link nel vostro feedreader.

La richiesta è rivolta anche a quelle poche decine di persone che sono ancora abbonate al feed nativo di WordPress (quartabozza.com/feed/) e così si perdono i contenuti speciali, tipo quelle 2-3 volte l’anno che posto una foto su Flickr.

Abbonatevi tutti ai nuovi feed. Grazie!

(l’immagine viene da qui, dove trovate un bel po’ di icone Rss niente male.)

Presentare un libro: al lettore, all’editore

Sul blog di Authonomy c’è una serie di consigli rivolti agli aspiranti autori che vogliono (devono) inviare all’editore un riassunto/sinossi del proprio libro. No, tranquilli, io non ho un romanzo nel cassetto; penso però che i consigli siano validi anche per chi stende risvolti, blurb, schede di lettura e di vendita, quarte di copertina e tutte quelle tipologie di testo che si scrivono in casa editrice.

In particolare, è offerta un’utile distinzione fra due modi di proporre un libro a un editore:

1 - Il riassunto stringato, che non svela tutta la trama ma invoglia a scoprirne di più. In questo caso l’enfasi è tutta su quei pochi elementi che differenziano il vostro libro dai (mille e mille) libri simili. Mediamente un editore avrà valutato in vita sua centinaia o migliaia di, che so, “struggenti storie d’amore sullo sfondo della carneficina della Guerra di Crimea”; il punto allora è spiegargli perché il vostro libro è originale rispetto a quel cliché/topos/sottogenere. Mi sembra giusto sottolineare l’importanza della stringatezza nel presentare un libro: perché la stringatezza va a tutto vantaggio dell’incisività di un messaggio che di fatto è pubblicitario.

2 - Il “full detailed outline” del libro. Se l’editore lo richiede, bisognerà fornirgli tutta la trama, nel dettaglio, senza paura di rivelare il finale (incredibile quanti aspiranti pennaioli siano terrorizzati all’idea di “spoilerare” l’editore). Il consiglio in questo caso è di allegare a questa plot dettagliatissima soltanto le prime venti pagine del libro. Rispetto a un malloppo di cinquecento pagine, ci sono più speranze che l’agente o l’editore legga la vostra proposta e poi chieda di vedere l’intero manoscritto.

Se io fossi un editore o un agente, preferirei di gran lunga il metodo 2, e a quanto ne so, gli editori italiani lo preferiscono. Perché ovviamente la differenza tra 1 e 2 è anche la differenza tra una bandella (risvolto) e una scheda di lettura. Scrivere un risvolto richiede di trovare quello sfuggente equilibrio per cui si racconta il libro, si spiega perché è originale/innovativo/inedito, ma senza rivelare troppo della trama (se è un romanzo) o dello sviluppo e le ramificazioni della tesi centrale (se è un saggio divulgativo). La scheda di lettura invece – per chi non lo sapesse – è un documento a circolazione interna della casa editrice, che in pratica serve agli editor per decidere l’acquisto dei diritti di un libro anche senza averlo letto. Ovvio quindi che il lettore che redige la scheda debba rivelare per filo e per segno il contenuto del libro, oltre naturalmente a giudicarne lo stile, l’eventuale valore letterario e la vendibilità. (E, ça va sans dire, una scheda di lettura può (deve!) criticare i punti deboli di un libro, una bandella no.)

La cattiva notizia per l’UAAR

A me, che pure sono socio UAAR, questa faccenda dei bus atei a Genova convince poco.

Lo slogan è ben diverso da quello inglese, che recita: “There’s probably no God. Now stop worrying and enjoy your life”. In italiano manca il “probabilmente”, che fa un mondo di differenza in termini teorici, pratici e metodologici.

Messa così sembra proselitismo, in uno stile indistinguibile da quello di certe réclame cattoliche o dei testimoni di geova. E sembra spocchioso e saccente; mentre io non ci tengo a convincere nessuno che dio non esiste, perché non è questo il punto.

Messa così è una contrapposizione sterile tra “dio non esiste” e “dio esiste”, dogmatismo puro da ambo le parti che non sposta di una virgola le convinzioni personali di nessuno. Come io non sono toccata minimamente dai proclami papali per cui dio c’è e ci ama e amiamolo o andremo all’inferno (ed è così perché è così e basta), analogamente non riesco a immaginarmi un credente che legge questa roba sul bus e risponde qualcosa di diverso da: “E invece secondo me esiste”.

Ed è una contrapposizione ridicola, perché il partito del “no” è in palese inferiorità numerica (per un totale di n. 2 autobus urbani) rispetto allo schieramento opposto. Di che ci illudiamo? E’ una strategia suicida.

Il senso non è contrapporre l’ateismo alla religione come due fazioni in lotta, ma contrapporre il dubbio e il sano esercizio della razionalità al fideismo dogmatico e irrazionale.

Dubbio: ovvero, quel “probabilmente”. In sede etica si può essere atei quanto si vuole, e io lo sono completamente; ma in sede teoretica vige il principio di falsificabilità, e dovremmo essere noi i primi ad applicare il metodo scientifico: l’ateismo non può ergersi a dogma. Anche Margherita Hack, presidente onorario dell’UAAR e mio mito personale, l’altra sera da Fazio (prima parte | seconda parte) ha parlato con garbo della “natura divina” del bosone di Higgs, e di certo non se l’è sentita di annunciare al mondo cosa c’era prima del Big Bang. Anzi, ha lasciato uno spiraglio aperto a un dio “orologiaio” tipo quello dei deisti, che crea il mondo ma non interviene in esso. Allora qual è il dio che non esiste? Neppure quello di Einstein che non gioca a dadi? Neppure quello di Spinoza? Siamo sicuri che il dio di tutti gli italiani sia esattamente lo stesso che ha in mente il papa?

Peraltro, se rimaniamo sul terreno dell’agnosticismo con il “probabilmente”, è facile che molte più persone si riconoscano nello slogan. Buttarla sull’ateismo assolutista e militante è pericoloso, perché ci fa passare per dogmatici come e più dei preti, e perché genera un rifiuto “di pancia” nel 99% degli italiani, che il senso religioso l’hanno bevuto col latte materno.

E poi, in generale: non è mai utile uno slogan che dice “gli altri sbagliano”, è sempre meglio uno slogan propositivo, che affermi una verità senza bisogno di negarne esplicitamente un’altra.

Avrei trovato utile, al limite, una bella frase di un autore classico, che stimolasse la riflessione. A me piace questa, per esempio:

Quando faccio il bene, mi sento bene. Quando faccio il male, mi sento male. Questa è la mia religione. (Abramo Lincoln)

Ma soprattutto, porco cane, nello slogan c’è una virgola tra soggetto e verbo.