Berlino. È difficile immaginare il gladiatore, come si dipinge orgoglioso («Vengo dalla terra, so cosa vuol dire combattere») con quell’aspetto distinto e mite. Però Luis De la Fuente non esagera, lotta da sempre e spesso vince: anche stavolta, a 63 anni, ha demolito i pregiudizi e trasformato i mormorii sospettosi in applausi. Incassò, scegliendo di puntare sul lavoro, ma due parole volle dirle e il tono sereno scacciò le ombre di presunzione: «Se c’è qualcuno che conosce il presente e il futuro del calcio spagnolo sono io».
Prima di trionfare con la Roja a Berlino, aveva conquistato l’Europeo con l’Under 19 nel 2015 e con l’Under 21 nel 2019, in mezzo l’oro dei Giochi del Mediterrano e l’argento alle Olimpiadi di Tokyo. Se scorrete le convocazioni del tempo, ritrovate i campioni di oggi: da Olmo a Fabian Ruiz, da Oyarzabal a Unai Simon, da Merino a Rodri che, appena alzata la coppa, ha sponsorizzato per il pallone d’Oro. De la Fuente non è un alchimista né un santone, è uno studioso di calcio – in Germania ha dormito anche tre ore a notte per monitorare gli avversari e rivedere la sua squadra – e non dimentica di essere artigiano. «Aggiustatore» (copyright by Ranieri) perché preso atto d’una deriva tattica infruttuosa (la Spagna dei 1000 passaggi a partita abbandonò agli ottavi il Mondiale in Qatar), ha impartito un’organizzazione meno soffocante e più rispettosa dell’estro, concesso libertà senza tradire un dna fatto di pressing e palleggio.
Eppoi ha avuto il coraggio di svecchiare – quando escluse Sergio Ramos, fu travolto dalle critiche – e, abituato a riconoscere le qualità e non subire i condizionamenti dell’anagrafe, di lanciare giovanissimi che sono diventati simboli, Nico Williams e il cucciolo Yamal: «Due giocatori e due ragazzi meravigliosi che devono continuare a crescere e farlo con calma: ce li godiamo, ci daranno ancora tante soddisfazioni». E ancora, da buon selezionatore, peculiarità dei tecnici federali, ha rinunciato ai blocchi che alternando Real Madrid e Barcellona avevano sovente caratterizzato la Nazionale. Racconta di specchiarsi in Ancelotti e in Mendilibar, carismatici senza perdere spontaneità o alzare i toni, di ringraziare se lo giudicano brava persona prima che buon tecnico («Nella professione, tanto, parlano il risultato»), di amare il calcio ma di essere consapevole che esistono cose ben più importanti, e in questa frase affiora il De la Fuente mistico, che confida di pregare tutti i giorni e specifica di rifuggire ogni superstizione. Dopo la vittoria ha incontraro Re Felipe, ma per prima cosa è corso verso il popolo: era la chiusura d’un cerchio perché nel giorno dell’investitura, circondato da sguardi scettici, oltra a rivendicare la conoscenza del calcio spagnolo aveva fatto una promessa: «Non voglio 48 milioni di allenatori, ma 48 milioni di calciatori: voglio recuperare lo spirito del 2010, quel senso di appartenenza, che faccia dire “sono spagnolo”».
Ha lasciato subito un piccolo segno con la Nations League, ci è riuscito alla grande con l’Europeo e adesso cercherà di allungare il filo dei successi: «La strada non è mai in discesa, perché in vetta, una volta che ci si arriva, bisogna anche restarci. Possiamo ancora migliorare, è questo il nostro obiettivo: abbiamo un grande presente e un futuro meraviglioso».