Reinhold Messner

Messner: “Festeggio gli 80 anni, a salvarmi è stata la paura” – La Stampa

Messner: “Festeggio gli 80 anni, a salvarmi è stata la paura”

Il re degli Ottomila compie 80 anni e si racconta: dalle grandi imprese alla lite dei figli con la seconda moglie. Per Reinhold Messner è una convenzione.

Forse è per questo che non si ferma, macina idee, progetti, divora la vita. Da sempre.

Anche adesso che sta per compiere 80 anni. Sarà martedì 17 settembre.

Nel dicembre scorso scrisse in inglese su di un post: «Sto arrivando alla fine». Aggiungeva di essere consapevole «di essere stato una brava persona».

Non era l’addio dell’alpinista più famoso di tutti i tempi, il «Re degli Ottomila», ma una costatazione legata all’età, al diventare vecchi e all’avvicinarsi alla conclusione della propria esistenza. Tranquillizzò tutti parlando con un cronista al telefono da un aeroporto, prima di salire a bordo di un aereo per l’India.

E per i suoi 80 anni ha scritto il libro edito da Corbaccio «La mia vita controvento». Da un altro aeroporto, di Monaco di Baviera, ci parla di sé, di progetti, dell’alpinismo, di passato per poter avere una visione sul futuro.

In partenza per? «Berlino, non ho tanto tempo.

Sto lavorando con la televisione tedesca». Ne parliamo?

«Non ora». Fra qualche giorno compirà 80 anni.

Tempo di… «Riflessione. Non avrei mai pensato di diventare così vecchio.

So che a questa età s’invecchia ogni giorno. Per tutta la vita ho sempre trovato, direi affrontato, sfide.

Continuo». Festeggerà con famiglia e amici?

«Con mia moglie Diane in un piccolo maso dolomitico. Con gli amici, poi.

Ci sarà il tempo. Assieme a Diane mi hanno già fatto gli auguri in una festa a Colonia l’altro giorno».

Nella foto Reinhold Messner con la moglie Diane Schumacher, 44 anni. È un compleanno in cui affronta anche l’amarezza per l’incomprensione con i suoi figli dopo la divisione dei suoi beni.

«Credo ci siano possibilità di riconciliazione. Non hanno accettato mia moglie, ma io sono aperto.

So che non è impossibile». Impossibile, parola a lei cara.

Ne scrisse per la prima volta facendo scandalo. Era il 1968 e scrisse sulla rivista del Club alpino italiano “L’assassinio dell’impossibile”.

Era l’epoca delle direttissime e dell’uso dei chiodi a espansione che rendeva tutto possibile. Lei fece un appello, “salviamo il drago”, metafora dell’impossibile.

«Allora s’infilava un chiodo dietro l’altro per ucciderlo. Follia.

L’impossibile è un valore da custodire. Tiene in vita l’alpinismo.

Occorre cercarlo. Oggi ci sono alpinisti che credono in questa sfida, in Italia c’è Matteo Della Bordella.

Questione di rispetto della montagna, di etica. Non si può tappezzare di chiodi una parete pur di salirla.

Il “drago” consente all’alpinismo di progredire». È necessario.

«Sì. Negli Anni 30 era la Nord della Cima Grande di Lavaredo.

La salirono Emilio Comici e i fratelli Angelo e Giuseppe Dimai. Comici la ripeté in solitaria».

Lei stesso affrontò l’impossibile nel 1969 in Dolomiti sul Sass dla Crusc con suo fratello Gunther. E in Himalaya?

«Nel 1970, sempre con Gunther. Il mio primo Ottomila su una parete ritenuta impossibile.

Karl Maria Herrligkoffer ci chiamò per partecipare alla sua spedizione sul Nanga Parbat. Parete Rupal, 4.500 metri.

Dicemmo di sì. Hermann Buhl, il primo ad arrivare in cima a quella montagna nel 1953 sfidò l’impossibile di allora.

Scrisse che mentre saliva vide quella parete e la definì “talmente difficile che non sarà mai superata”. E da lì ho cominciato a salire sugli Ottomila».

Nella foto l’alpinista Hermann Buh. Un inizio finito in dramma con la morte di Gunther.

E lei riportò il congelamento delle dita dei piedi proprio perché lo cercò per giorni. Eppure fu accusato di averlo abbandonato.

«Dolore profondo che ho con me. Trent’anni dopo ancora c’era chi sosteneva che avessi rispedito indietro mio fratello sulla Rupal.

Invenzioni, fantasie, una calunnia spazzata via dal ritrovamento dei resti di Gunther in fondo alla parete opposta, quella del Diamir». Che rapporto ha con la morte?

«Ho vissuto stati di pre morte. Ma nella morte non hai sensazioni».

E la paura? «Per un alpinista è vita, ti tutela».

Proprio in questi giorni si susseguono su tutto l’arco alpino soccorsi di alpinisti in difficoltà, stanchi, oppure bloccati dal maltempo. «Ho letto di quanto accaduto sul Monte Bianco alla coppia morta nella bufera.

Non si può resistere a quelle temperature e con quel vento. Si sapeva che il tempo sarebbe cambiato.

E poi incidenti a ripetizione sulle Dolomiti. Questa lontananza dalla realtà si scontra con la preparazione dei singoli.

Sono allenati in palestra, in falesia, ma non sanno che cos’è la natura selvaggia, l’alta montagna. E poi c’è anche il condizionamento psicologico, pensi che comunque vada hai una salvezza possibile, un elicottero pronto per venirti a prendere se resti in parete».

È vero che ha un progetto per avvicinare i giovani alla natura? «Sì, come dicevo non siamo più a contatto con la natura.

È un progetto con gli adolescenti, ai piedi dell’Elmo in Sud Tirolo, posto bellissimo. Un centro culturale sul futuro dell’alpinismo e sulla natura che per difenderla devi conoscerla.

Ho già portato dei ragazzi dalla Germania. E ne ho un altro di progetto.

È il Messner Mountain heritage con mia moglie. È cultura».

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